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E. Hopper: l’attimo senza tempo

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E. Hopper: l’attimo senza tempo

di Giovanni Baldaccini

 

 

Scrivere di Hopper non è compito semplice: sembra scrivere di nulla.

Molti ne hanno parlato e molte sono le definizioni dell’uomo e della sua pittura. Di volta in volta i suoi quadri sono stati espressione di silenzio, alienazione, assenza, solitudine ed altre categorie più o meno adatte a classificarli. Io non trovo una categoria adatta. Per me Hopper è un’assenza talmente estrema da sfuggire a qualsiasi definizione. A mio parere, Hopper esce dal tempo e il tempo è categoria di qualsiasi realtà si voglia parlare. Nella realtà codificata delle sue astrazioni materiali, Hopper mi sembra fuori dal reale.

Tuttavia Hopper esiste – o meglio, esistono i suoi quadri. Hopper dunque è reale, ma di una realtà diversa, perché Hopper annulla il tempo e dunque la stessa possibilità di essere reale. Questa affermazione andrà giustificata.

 

“In quei territori dell’estremo spaesamento contemporaneo, infatti, incontriamo presenze spettrali che si aggirano tra luoghi desolati, nascosti dalla banalità del quotidiano, dall’eterna ripetizione di gesti automatici e inautentici. Tutto appare sprofondato nel presente dove ormai nessun evento può più davvero aver luogo perché lo spazio di manifestazione nella vita ordinaria sembra completamente saturo di accadimenti sempre identici. Il tempo insomma si chiude, bloccato nel suo movimento di sistole e diastole, in un presente atemporale ben lontano dall’istante kairotico e destinale. Non c’è spazio per l’eterno né per il suo ingresso nel tempo attraverso l’attimo, non c’è aíon possibile ma solo ossessiva ripetizione che frattura le estasi temporali disperdendo irrimediabilmente télos, skopòs éschaton. Non resta che l’ipostasi del presente con l’opprimente pesantezza dell’esistere” [Levinas, E., Il Tempo e l’Altro (1948), tr. it. di F.P. Ciglia, Genova, Il Melangolo, 2001].

 

Dunque Hopper annulla la ripetizione del banale e chiude il tempo rifiutando in tal modo l’insensatezza di un esistere che è ossessione inconsapevolmente ripetuta, ma non credo che l’attimo, che Hopper fissa nei suoi quadri, non apra spazi d’eterno. Di questo parlerò in seguito. Per ora dirò che Hopper “tiene insieme le cose”.

 

In un campo
io sono l’assenza
di campo.
Questo è
sempre opportuno.
Dovunque sono
io sono ciò che manca.

Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria si fa avanti
per riempire gli spazi
che il mio corpo occupava.
Tutti abbiamo delle ragioni
per muoverci
io mi muovo
per tenere assieme le cose.

 

Mark Strand, Tenendo le cose assieme

da "Sleeping with one eye open"

 

Nella fissità atemporale delle sue rappresentazioni, Hopper evita la dispersione. Egli fissa infatti i suoi personaggi/paesaggi nello spazio racchiuso e immobile della tela, evitando che soffrano del tempo, che soffrano il suo trascorrere meccanico, che si annullino nel tempo insensato del mondo. In ultima istanza, Hopper tenta di evitarne la morte.

Nell'annullamento temporale, i quadri di Hopper sono uno squarcio d’eterno. Cancellando il tempo, tenendo insieme le cose nell’attimo che non sfugge, fissando uomini, donne, paesaggi, muri, città e qualsiasi altra cosa capiti sotto i suoi occhi, persino una pompa di benzina, Hopper evita che muoiano disperdendosi nella banalità delle definizioni e consegna i suoi oggetti a un eterno senza tempo che tuttavia è tempo nella misura in cui li definisce in un “al di fuori” irreale, una metafisica del reale che egli ricerca e fissa nell’eterno senza tempo della sua visione che annulla le categorie del quotidiano. In ultima analisi, Hopper teme la morte. La teme a tal punto da estenderne il concetto persino alle cose: Hopper voleva salvare le cose dalla morte. 

Sovrano è l’attimo, sottratto a qualsiasi forma di fluire e, con ciò, scomparire. Hopper rende eterna l’antitesi dell’eterno, cioè l’attimo, e in questo modo ferma il tempo che va verso la morte. Questa l’eternità che Hopper rappresenta nell’irrealtà tangibile delle sue tele, dove tutto è sospeso, diafano, non concreto, persino il colore, persino la luce, spesso limitata a un particolare e comunque impalpabile.

Città impossibili, quelle di Hopper, città che non esistono e tuttavia esistono. Come le sue donne immobili, come temessero persino di respirare. Nulla respira in Hopper e noi che lo osserviamo non possiamo che trattenere il fiato per paura che le sue "cose" possano scomparire.

 

“Nei quadri di Hopper possiamo guardare le scene più familiari e sentire che sono essenzialmente remote, addirittura sconosciute. I personaggi guardano nel vuoto. Paiono essere altrove, persi in una segretezza che i dipinti non possono svelare e che noi possiamo solo cercare di indovinare. È come se fossimo spettatori di un evento cui non siamo in grado di dare un nome. Sentiamo la presenza di ciò che è nascosto, di ciò che senza dubbio esiste ma non viene rivelato. Formalizzando l’intimità, fornendole uno spazio in cui può venire osservata senza essere violata, il potere di Hopper viene esercitato nei nostri confronti con estremo tatto”. (Mark Strand, Edward Hopper, un poeta legge un pittore, Donzelli, Roma, 2016).

 

Non è l’attesa dell’inatteso, come dice Derrida, a caratterizzare il nostro tempo. Ciò che sopravviene è ciò che sappiamo da sempre senza conoscere e ci rifiutiamo di ri-conoscere. Osservando un quadro di Hopper, quel che ci perturba (S. Freud, “Il perturbante”) è la presenza assente di una conoscenza, quel “conosciuto non pensato”, secondo una definizione di C. Bollas, che ci sorprende perché non abbiamo il coraggio di pensare e conoscere l’inevitabile attesa/disattesa del non tempo. 

Una coscienza diversa: questa la proposta di Hopper. Una coscienza che non ignora ma non sa, che fluttua nella fissità, che sospende il giudizio, il valore, la sostanza e si presenta di fronte all'ignoto non per conoscerlo, ma per esserne parte. Hopper è parte del suo dire, un non-dire oleoso che sguscia mentre assimila, confonde mentre osserva, propone l'improponibile di un tempo che non è per sfuggire al suo tempo senza voltargli le spalle. Un inconscio che si fa figura: questo mi sembra Hopper.

Nell'inconscio non esiste coscienza del tempo. Esso è psiche atemporale. Tuttavia, anche il non-tempo parla. Lo fa nel sintomo e in qualsiasi altra forma d'espressione rivesta questa terra. Il mondo di Hopper, e il mondo in generale, è un immenso teatro rappresentativo, una serie ininterrotta di simboli che si propongono e propongono una significatività senza parola che, come tale, è in attesa d'esser detta. Quando ciò avviene, la proposta si rinnova.

Hopper, tuttavia, non vuole che si dica: il suo linguaggio muto fissa ogni parola. Di Hopper non si può parlare. Si può soltanto osservare, tentando di non essere risucchiati nella fissità impalpabile del suo non dire.

Hopper è un simbolo muto, e nel frastuono insensato del banale, che si ripete inutilmente lungo secoli di aspettativa di dire, egli ci dice di osservare un silenzio che parla di silenzio.

Hopper, in ultima istanza, fa parlare ciò che vede nel mondo: il silenzio del non tempo della morte,

Nel frastuono a-significativo del mondo risuona la voce di Thanatos che Hopper tenta di far tacere sospendendo il tempo e facendoci ascoltare, attraverso i suoi quadri, il silenzio del significato, il nulla muto della nostra epoca.

 

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